Piccola ape furibonda
Settembre 2008
Ho sempre odiato il grembiule col fiocco rosa caramellato.
La mia carriera sociale ha inizio dall'asilo, non mi piacevano le suore, il minestrone, i filmini sui santi, la stanza dei giocattoli aperta solo per la foto di rito annuale.
Trascorso l'anno autistico da moschina in balia delle vedove nere spose di Cristo, passai alla scuola elementare.
Le scuole medie le ho trascorse timidamente e impegnandomi a misurare mammelle e brufoli, poi finalmente alle scuole superiori ho intrapreso il percorso da brava bambina a cattiva ragazza da otto in condotta.
Erano gli anni Settanta, tempi non di bullismo come adesso ma di rivoluzione almeno sognata, per cui a scuola il giudizio sul comportamento ed il voto conseguente erano esponenziali al livello di ribellione.
Ho incontrato maestre e professori buoni e cattivi, insegnanti bravi e inetti, chi in classe leggeva il giornale e chi si grattava i gioielli sbirciando le cosce delle studentesse, qualcuno mi ha fatto amare l'italiano e taluno odiare la matematica.
Ho seguito gli studi dei miei figli coi medesimi programmi di allora giammai aggiornati.
La storia sempre ferma alla seconda guerra mondiale nonostante ulteriori sessanta anni mai illustrati.
Le scienze odierne talora ammiccanti alla sessualità tuttavia ancora omertose e latenti.
L'inglese dalla cadenza partenopea e l'informatica da copia e incolla.Alla scuola perlomeno devo la conoscenza e la scoperta del piacere della lettura e scrittura.
Oltre all'acculturamento, da ragazza ho fatto volontariato.
Frequentavo un gruppo di antipsichiatria democratica e accudivo due bambine, la cui madre lavorava mentre il padre era ospite a coazione dello Stato.
Ricordo ancora le sedute di libero ascolto, ove alcolizzati, sventurati e umanità varia sfogavano le ingiustizie subite e fallimenti esistenziali.E mi risuonano le parole dell'anziana psichiatra che sosteneva che le cause del disagio sono sovente sociali, raramente individuali.
La tesi della professoressa si basava sul concetto che si sarebbero dovuto cambiare le condizioni di vita dei pazienti, economiche e ambientali, per ottenere la cura risolutiva.
Deprecando l'uso smodato dei farmaci sedativi mutuabili dei centri di assistenza istituzionali.Purtroppo l'amministrazione comunale di sinistra non concesse più i locali per lo svolgimento dell'attività terapeutica, considerata sovversiva e troppo comunista.
Così l'esperienza si concluse, demolendo il caseggiato dei casi sociali e umani, disperdendo ogni velleità comunitaria.
I bambini non ebbero più a disposizione uno spazio protetto dove giocare e disegnare.
Smarrita la nostra allegra corte dei miracoli che gironzolava per parchi e vie del quartiere.
La bambina Down di cui i genitori anziani si vergognavano, ritornò a restare segregata in casa.
Le piccole orfane di padre carcerato divennero nuovamente nidi per pidocchi.
E la moglie coi lividi color del vino del marito ubriaco risalì sul ring del pugilato domestico.
Ciò nonostante è stata comunque un'esperienza indimenticabile e forgiante.Talvolta medito su cosa accadrebbe se mi mostrassi priva di senno.
Aboliti i manicomi non rischierei di finire internata come la poetessa Alda Merini, piccola ape furibonda.
Sarei assistita a carico della comunità equa e solidale con frequenza obbligatoria ai centri psichiatrici distrettuali.
Svuotando follemente e regolarmente i farmaci prescritti nella tazza del cesso e simulando sintomi e comportamenti antisociali.
Sicuramente godrei di uno stato di grazia e serenità gratuite e garantite.
Mentre invece morirò come Oriana, malata, vecchia, sola, giudicata pazza.
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